Storia

La storia di Adriano Olivetti, il visionario che realizzò una Silicon Valley all'italiana

L'utopia di Adriano Olivetti era trasformare la storica fabbrica di famiglia in un'azienda all'avanguardia nel campo dell'elettronica. E ci riuscì.

Adriano Olivetti convertì una fabbrica di macchine per scrivere in azienda modello, vediamo come nell'articolo "In memoria di Adriano" di Fabio Dalmasso, tratto dagli archivi di Focus Storia.

Visionario. "Noi crediamo nella virtù rivoluzionaria della cultura che dona all'uomo il suo vero potere". Nelle parole di Adriano Olivetti, nato a Ivrea l'11 aprile 1901, emerge forte lo spirito con il quale l'imprenditore piemontese guidò l'azienda di famiglia dagli Anni '30 fino alla sua morte, nel 1960. Per molti è stato un industriale pragmatico e innovatore, per altri un inguaribile sognatore, addirittura un utopista. Su una cosa però tutti sono d'accordo: rese famosa nel mondo una fabbrica di macchine per scrivere e calcolatrici (e in seguito di computer, stampanti e fax) grazie alle sue intuizioni.

Etica del lavoro. "Capì la necessità di un radicale cambiamento di mentalità, rispetto al mito del progresso e del profitto a tutti i costi sulla pelle dei lavoratori. Al contrario, la fabbrica era considerata uno strumento di crescita del territorio, per migliorare le condizioni di vita di tutti, con un welfare su misura, servizi, educazione e, appunto, cultura", racconterà la figlia Laura (1950-2015). Un progetto che, in pieno boom economico, Olivetti cercò di attuare nella sua fabbrica di Ivrea e immaginò a un livello ancora più ampio. Teorizzò infatti un modello ideale di società che fu alla base del suo programma politico e che illustrò nel libro L'ordine politico delle Comunità.

EREDITÀ. Il sogno di Olivetti non nasceva dal nulla, aveva radici ben piantate nella storia dell'azienda di famiglia. Quando nel 1932 assunse la direzione della fabbrica, infatti, Adriano ereditò dal padre non solo un'attività industriale, ma anche una certa visione del lavoro. Samuel David Camillo Olivetti (1868-1943) era nato in una famiglia della borghesia ebraica di Ivrea (ma in seguito si convertì, come il figlio, al cristianesimo). «Non usò mai i primi due nomi, preferiva l'ultimo, in onore di Camillo Benso conte di Cavour», scrive Meryle Secrest nel suo Il caso Olivetti (Rizzoli).

PENNA MECCANICA. Nel suo viaggio americano Camillo aveva capito che un nuovo dispositivo meccanico, ancora poco diffuso, avrebbe preso il posto della penna negli uffici: la macchina per scrivere. Brevettata nel 1855 dall'avvocato novarese Giuseppe Ravizza, che la chiamò "cembalo scrivano" (per la sua somiglianza con il pianoforte), in Italia non aveva avuto molto successo, ma oltreoceano sì.

Stage all'estero. Camillo Olivetti divenne ingegnere e poi assistente dello scienziato Galileo Ferraris, con il quale visitò negli Stati Uniti i laboratori dell'inventore Thomas A. Edison (che incontrò di persona). Successivamente, nel 1896 fondò la sua prima azienda, la Cgs (acronimo di Centimetro, grammo, secondo), specializzata in strumenti per le misurazioni di precisione e in seguito trasferita a Monza. Ma presto si buttò in un nuovo settore.

Giusta intuizione. «Le aziende americane accolsero con entusiasmo l'idea di Ravizza», scrive Meryle Secrest. Quando, nel 1868, la statunitense Remington iniziò la produzione di una versione con sostanziali modifiche, fu un enorme successo. L'imprenditore piemontese intuì che quello era il prodotto su cui puntare. Tornato a Ivrea, si mise all'opera. «Nel 1908 fonda la Camillo Olivetti e C., prima fabbrica italiana di macchine per scrivere», racconta Alberto Saibene nel volume L'Italia di Adriano Olivetti (Edizioni di Comunità).

APPRENDISTATO. Mentre Olivetti padre si affermava nel nuovo mercato, la famiglia cresceva. Camillo e la moglie Luisa Revel (figlia del pastore valdese di Ivrea) ebbero sei figli: Elena (1900), Adriano (1901), Massimo (1902), Silvia (1904), Lalla (1907) e Dino (1912). Il primo maschio avrebbe preso le redini dell'azienda e a questo fu preparato fin da ragazzo. "Nel lontano 1914, avevo allora 13 anni, mio padre mi mandò a lavorare in fabbrica", ricorderà Adriano. "Imparai ben presto a conoscere e a odiare il lavoro in serie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non finivano mai, nel nero e nel buio di una vecchia officina".

Utopia. In quel momento scattò in lui la «consapevolezza di quella che è stata definita l'utopia di Adriano Olivetti», spiega Saibene. Un'utopia che lo guidò quando divenne direttore generale (1932) e presidente (1938) dell'Olivetti, sposando fin da subito l'idea paterna di un imprenditore che abbia anche precisi doveri sociali verso la comunità.

WELFARE. Olivetti padre, politicamente vicino al Partito socialista, nel 1909 aveva infatti creato una cassa di mutua assistenza e nel 1932 aveva istituito una fondazione per i dipendenti in difficoltà. Non solo: nel 1926 «aveva fatto costruire vicino alla fabbrica sei complessi abitativi per gli operai, con un giardino abbastanza grande da poterlo trasformare in orto», racconta Secrest. «Voleva che ai propri dipendenti fosse garantita una potenziale fonte di sostentamento, nel caso fossero rimasti senza lavoro». In altre parole, teneva al benessere di chi lavorava per lui. Partendo dal "capitalismo paternalista" di Camillo, Adriano andò oltre.

Tra il 1934 e il 1938 istituì un vero welfare di fabbrica, con un asilo e il servizio sanitario per i dipendenti e una biblioteca per il dopolavoro.

Ambiente di lavoro. La fabbrica originaria fu ampliata su progetto degli architetti Luigi Figini e Gino Pollini, che ne alleggerirono la struttura con il vetro. Le grandi vetrate, allora una novità, permettevano l'illuminazione delle officine con luce naturale in modo che gli operai non fossero costretti a lavorare al buio, come succedeva nelle altre fabbriche, un disagio che come abbiamo visto Adriano aveva provato in prima persona. "Vorrei fare di questa fabbrica un mezzo migliore di vita e di comunanza sociale", disse ai suoi dipendenti nel giugno del 1945, appena rientrato dall'esilio in Svizzera, dove si era rifugiato a causa della sua attività antifascista.

Cultura operaia. Era appena finita la guerra e l'imprenditore poteva dedicarsi ai suoi progetti, sia a quello industriale, sia a quello politico e sociale. Al già ricco welfare aziendale si sommarono importanti iniziative culturali per i dipendenti. «Tra il 1950 e il 1964 si sono organizzate 249 conferenze, 71 concerti di musica da camera, 103 mostre d'arte, 52 altre manifestazioni», spiega Antonella Tarpino nel libro Memoria imperfetta. La Comunità Olivetti e il mondo nuovo (Einaudi). Adriano fondò anche una casa editrice: Edizioni di Comunità.

L'avventura politica. Soprattutto, con una mossa sorprendente per l'epoca, nel 1953 Olivetti partecipò alle elezioni politiche con un partito tutto suo, il Movimento Comunità, riscuotendo molti consensi a livello locale. A Ivrea prese il 51% dei voti (secondo partito dopo la Dc), ma non bastò per entrare in Parlamento. Si rifece, tuttavia, qualche anno dopo. Nel 1956 la sua Lista Comunità conquistò il comune di Ivrea e Olivetti fu eletto sindaco. E nel 1958 alle politiche il suo movimento ottenne, alla Camera, 173.227 voti, pari allo 0,59%, sufficienti per l'elezione di un solo deputato, Olivetti stesso. Nessun eletto invece al Senato, dove le schede a favore del Movimento Comunità furono 142.897, pari allo 0,55%.

Le dimissioni. La sua avventura nella politica romana, però, si esaurì presto. Dopo due progetti di legge presentati il 23 ottobre 1959 si dimise per incompatibilità con il suo ruolo nella giunta tecnico-consultiva dell'Ina-Casa, il piano di intervento dello Stato italiano per realizzare edilizia residenziale pubblica su tutto il territorio. Dopo pochi mesi, il 27 febbraio 1960, morì per un'emorragia cerebrale.

Questo articolo è tratto da Focus Storia. Perché non ti abboni?

27 febbraio 2024 Focus.it
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